Tempio della Concordia

Tempio della Concordia

Il nome deriva da una iscrizione latina della prima età imperiale con dedica alla concordia degli agrigentini, trovata da queste parti ed erroneamente messa in rapporto all'edificio, che è invece del migliore stile dorico e deve attribuirsi agli anni 440 - 430 avanti Cristo. Lo stato eccezionale della sua conservazione, dovuto in parte all'essere stato il tempio a fine del VI sec. d.C. trasformato in chiesa cristiana, permette di godere nella visione di esso e nello studio dei suoi particolari un esempio insigne del mirabile sviluppo e dell'armonica bellezza raggiunti dal tempio dorico nel periodo delle sue maggiori affermazioni. Sopra un apposito basamento che, come nel tempio di Giunone aveva il compito di vincere le irregolarità del terreno, sorge il krepidoma di quattro gradini, e impostati su questo gli elementi dell'elevato, che si compone di peristilio e di cella. Le colonne della peristasi (6 × 13 con 20 scanalature alla maniera canonica: altezza m. 6,72) sono armonicamente rastremate: dopo un leggero rigonfiamento fino ad un terzo circa della loro rilevazione dallo stilobate (entasis), si restringono sensibilmente verso la parte superiore del fusto, dove le linee nuovamente si slargano nell'ampia dolcissima curva dell' echino del capitello. Complesso e sottile, come è risultato da accurate misurazioni di altri tempi, è il sistema delle proporzioni messo in atto dall'ignoto costruttore per il raggiungimento di una perfezione che, se è difficile a definirsi, si sente tuttavia quale miracolosa presenza di un'architettura mai superata che solo apparentemente è semplice ed elementare. Anche ad occhio nudo è possibile cogliere l'attenta ricerca di curvatura che anima le linee del massiccio basamento. Elastiche e come avvolte di aerea atmosfera vibrano le eleganti colonne, con l'andamento impercettibilmente elicoidale delle loro scanalature, con la loro inclinazione verso le quattro pareti della cella e verso gli angoli, con la loro modulata larghezza dei loro interassi. A questi accorgimenti perfettamente risponde una modulazione razionale delle dimensioni delle metope e dei triglifi la cui alternanza nel fregio qui ha raggiunto una chiarezza compositiva sublime. Della trabeazione, che si conserva per intero sulle due fronti, ci sono noti oltre il fregio, tutti gli altri elementi compresa la tipica cornice a mutuli: unica in Sicilia e ad ogni modo rarissima . La cella lunga m. 28,36 e larga 9,44 alla quale si sale per uno scalino, constava anche qui oltre che della cella vera e propria di un pronao e di un opistodomo entrambi in antis. Ben conservati i piloni quadri tra pronao e cella e le scalette al loro interno che conducevano al tetto. Perfetta l'isodomia delle strutture, conservatasi senza danni attraverso i tempi. Scomparso il muro di fondo della cella è interamente crollata la copertura, della quale però possono agevolmente riconoscersi le diverse parti mediante lo studio delle cavità per l'inserzione delle travi visibili sulle pareti della cella e sui blocchi della trabeazione. È necessario un piccolo sforzo di fantasia per immaginare questo tempio come lo videro i greci del V secolo a.C. Esso era tutto rivestito di stucco, questo lasciato bianco nelle parti basse dal basamento e nei fusti delle colonne, e vivacemente e variamente colorato dai capitelli in su. Il verde, il rosso, il bruno, l'azzurro furono i colori usati per dare ai diversi elementi della struttura risalto e caratterizzazione. Non è da escludere che anche le metope, anziché scolpite come in alcuni templi di Selinunte, e in genere nel tempio dorico, siano state dipinte con scene mitologiche aventi riferimento alla divinità cui il tempio era dedicato. Il tetto aveva tegole di marmo, anche queste colorate. Dalla sima sporgevano gronde a testa leonina. Antefisse, acroteri, palmette policrome completavano, in un trionfo di motivi e di colori, la splendida decorazione di un edificio architettonicamente sobrio ma festoso nelle sue componenti accessorie. Nulla sappiamo nei riguardi dei frontoni: tuttavia non è possibile pensare vuoti i triangoli dei timpani dove, anche se è totalmente scomparsa, una ornamentazione dipinta o plastica ci sarà stata senza alcun dubbio. Le 12 arcate che forano sui due lati i muri della cella sono quello che rimane degli adattamenti subiti dal tempio al momento della sua trasformazione in basilica cristiana. Ciò avvenne negli ultimi anni del VI secolo dopo Cristo ad opera del vescovo Gregorio che adattò a tale funzione l'antico tempio pagano dedicando la nuova chiesa ai santi Pietro e Paolo. Fu allora invertito l'orientamento dell'edificio. Si abbattè il muro che divideva la cella dell'opistodomo, si riempirono gli intercolumni con pareti piene, si diede alla basilica la distribuzione in tre navate, di cui quella centrale fu rappresentata dalla vecchia cella. In questa circostanza dovette essere distrutto, per ovvie ragioni di incompatibilità, l'altare antistante il tempio di cui nulla ci rimane. La restituzione del monumento a quanto si conserva delle sue originali forme dell'epoca classica risale al sec. XIII su disposizione data nel 1788 da Ferdinando III di Borbone.

Valle dei Templi